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Al di là del muro




DAL
01/12/2019
AL
06/01/2020


Casa Ceretti - Via Roma 42 Verbania

Giovedì
14.30-17.30
Sabato
10.00-12.30/14.30-17.30
Domenica
14.30-17.30

0323557116
segreteria@museodelpaesaggio.it

“Cortina di ferro si definiva in Occidente la linea di confine che, come una barriera, divideva l’Europa in due

zone ben separate di visione politica, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine della cosiddetta “guerra fredda”. Durante questo periodo per oltre quarant’anni, dal 1945 al 1989, l’Europa orientale stava sotto il controllo politico e l’influenza della Unione Sovietica, mentre l’Europa occidentale ricadeva sotto l’influsso degli Stati Uniti d’America. Degli USA, della loro storia e prospettive, come pure dell’Europa dell’Ovest, era facile avere una chiara conoscenza. Non così dell’URSS e dell’Europa dell’Est.” (Paolo Ferloni)

La mostra è divisa in 5 sezioni tematiche: “Persone e colori”, “Socialismo e regime”, “In viaggio”, “La città”, “La serie blu”. Nelle 81 immagini esposte, il grande assente è proprio il Muro, eppure la sua presenza in qualche modo si intuisce. Forse perché, paragonando le immagini alle nostre esperienze estetiche occidentali, si notano alcune differenze vistose: gli abiti, le vetture, i palazzi, il paesaggio dell’uomo. La nostra mente è spinta a immaginare un confine tra i costumi europei occidentali e orientali, ed il Muro, per anni, ha incarnato quel confine immaginario, contribuendo a rendere più eclatanti, ed in alcuni casi più esagerate, le normali differenze etnografiche. Se però, oggi, da osservatori di queste immagini, riusciamo ad andare oltre questa percezione, troveremo molti, moltissimi elementi di similitudine tra la quotidianità della vita “dell’Est” e la nostra.

Le foto esposte provengono da raccolte di diapositive private che i curatori hanno trovato in vecchi mercatini sparsi un po’ ovunque, da Bratislava a Timisoara, talvolta chiedendole alle persone che le avevano in casa in vecchi scatoloni abbandonati: merce ormai senza valore che non destava più interesse.

 “Ero curioso di vedere come si viveva quando il Muro era ancora su, come erano i luoghi e le vite delle persone. Ho iniziato a passare lunghe notti scansionando, dopo il mio lavoro, migliaia di immagini e catalogandole in base alle “collezioni” acquisite. Ero attratto non tanto dalle solite immagini dei palazzi del centro, delle chiese e delle pinacoteche, di cui vi sono immagini ovunque e che sono sempre le stesse da secoli. Cercavo nelle immagini i colori e le atmosfere che avevo sentito nei miei viaggi, e la cosa incredibile è che le ritrovavo: per questo la scelta di queste immagini è estetica ma anche fortemente “sentimentale” se mi si può passare il termine. Per questo le immagini hanno i loro colori originali e le loro “impurità” mantenute”. (Alessandro Cini)

Le città a Est hanno sempre comunicato il loro ampio respiro, insistono su luoghi molto più ampi rispetto ai nostri e dopo la guerra questi spazi si sono dilatati per fare spazio alle costruzioni socialiste. I primi anni dopo la caduta del muro erano città silenziose, molto sicure perché non era arrivata in maniera diffusa lo spaccio e la delinquenza (vi erano, sia ben chiaro, ma ai livelli alti) ma al tempo stesso deserte e malinconiche. Lo si vede chiaramente nelle immagini, spazio e poche persone, luoghi quasi metafisici, che contrastano la vitalità dei centri storici urbani, dove invece ferve la vita e l’attività di tutti i giorni.

I colori nelle persone e nelle decorazioni, vivaci, forti e geometrici, spariscono giorno dopo giorno per lasciare posto ad un design ormai globale che lascia davvero poco spazio alla fantasia. Nelle immagini recuperate si trova quel mondo di colori sgargianti che decorava carte da parati interne di uffici e appartamenti e che ora sopravvive in pochi hotel di terz’ordine sulle strade meno battute. I colori accesi si ritrovano nei vestiti, sia quelli tradizionali che quelli dei giovani, e riempiono i mercatini dove gran parte delle persone andava ad acquistarli.

I veicoli, squadrati, essenziali e spartani, che continuano a viaggiare con una media di 30/40 anni di vita sempre più migrando a Est – nelle ex Repubbliche dell’Asia Centrale e in Siberia – come ai tempi dei Cosacchi che colonizzarono la Siberia in un’epopea simile e inversa a quella del West. Nelle immagini le loro geometrie squadrate sembrano studiate per inserirsi nelle architetture, parte di uno stesso mondo, disegnato dopo la guerra a tavolino.

E poi c’è il freddo, che nulla ha a che fare la geopolitica, ma che a Est è il grande comune denominatore. Alcune diapositive hanno virato il colore in blu, le ho trovate ancora più affascinanti, nel comunicare le sensazioni estreme che raccontano. Il calore degli ambienti domestici, il gioco e i colori caldi dei giochi bambini negli asili, fanno da contrasto ad un ambiente ostile e glaciale, in cui sparute figure umane si muovono tra vecchi palazzi e chiese sontuose, in una atmosfera ovattata in cui pare dominare il silenzio.

Ma il vero protagonista di queste immagini alla fine è sempre lui, il viaggio, al centro per forza di cose di ogni mostra fotografica che parli di luoghi. Viaggio voleva dire fatica per chi voleva muoversi, sia verso Occidente che all’interno degli stessi paesi: lunghi spostamenti in autobus che finivano spesso per rompersi per strada, code di decine di ore fermi alle dogane invase da camion, auto ferme a riprendere fiato sui passi del Carpazi per strade troppo ripide e motori troppo antiquati. Che erano poi le fatiche dei primi viaggiatori occidentali che andavano oltre il Muro dopo il 1989 e decidevano di muoversi via terra.

La mostra è strettamente legata al progetto DIA+: al recupero di vecchie diapositive destinate a finire nel bidone dell’immondizia. I curatori hanno lavorato immaginando continuamente le vite dei fotografi che hanno realizzato questi scatti. Cosa avrebbero voluto comunicare con queste immagini, erano semplici ricordi, qualcuno era un professionista? “Sfortunatamente non conosciamo il nome degli autori delle immagini, sappiamo che alcune appartengono ad un serie di diapositive con scopi educativi che venivano proiettate nelle scuole. Delle altre però, è stato già difficile riuscire a collocarle geograficamente e trovarle una corretta scansione temporale. Inevitabilmente la mostra va apprezzata nel suo insieme per coglierne la forza, è un progetto ampio e ogni singola immagine è stata scelta accuratamente tra decine e decine di altrettanto interessanti, con l’obiettivo di costruire questa spaccato visivo sull’Est.” (Stefano Menegon)





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